Il reato di diffamazione su Facebook
L'avvocato Amilcare Mancusi è un esperto di questioni legali correlate all’utilizzo di Internet e dei social network. Abbiamo cercato di capire insieme a lui in quali condizioni si può parlare di reato di diffamazione nel caso si condividano post offensivi ed in quali no.Secondo una recente sentenza della Corte di Cassazione datata 29 gennaio 2016, a quanto pare, non integra il reato di diffamazione la condotta di chi condivide un post su Facebook contenente una discussione telematica ove altri hanno manifestato frasi offensive verso una terza persona. Tutto ciò è valido a condizione che chi abbia postato il contenuto non alimenti gli atteggiamenti offensivi, tenendo una condotta che faccia pensare ad una volontaria adesione ed una consapevole condivisione. Il nostro esperto esordisce con questa sentenza, raccontandoci che è stato accolto il ricorso poiché il fatto non sussiste.L’imputato, grazie al proprio difensore, ha presentato questi quattro motivi a sua discolpa:
con il primo motivo si deduce errata applicazione della legge penale in ordine all’attribuzione all’imputato della condotta ritenuta offensiva, in difetto della prova;
con il secondo motivo si sottolinea il difetto di motivazione relativo alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato;
con il terzo motivo si lamenta il mancato riconoscimento dell’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero.
con il quarto motivo, infine, viene dedotto il difetto di motivazione in ordine ai criteri adottati nella determinazione del danno non patrimoniale liquidato in favore della persona offesa costituitasi parte civile.
Come ricordato nella stessa sentenza impugnata, il Tribunale aveva assolto l’imputato ritenendo che la frase riferita alla persona offesa e «postata» dall’imputato (“Spero solo di vivere abbastanza per godermi il giorno in cui andrà in pensione e prenderlo a bastonate finché basta”) fosse priva di intrinseca portata offensiva. Questa valutazione è stata condivisa anche dalla Corte territoriale, che però ha ritenuto di doverne affermare il carattere diffamatorio alla luce del contesto nel quale la frase è stata pubblicata, ovvero una discussione telematica nel corso della quale altri partecipanti avevano inviato messaggi contenenti espressioni palesemente offensive. In tal modo l’imputato, attraverso la propria condotta avrebbe prestato “una volontaria adesione e consapevole condivisione” di tali espressioni, determinando così la lesione della reputazione della persona offesa.Amilcare ci ricorda che al riguardo di questo specifico caso è stato scritto che “l’imputato condividesse o meno i presunti insulti che altri avrebbero postato è infatti circostanza irrilevante nella misura in cui la sua condotta materiale non evidenzia oggettivamente alcuna adesione ai medesimi, rilanciandoli direttamente o anche solo indirettamente”. Così facendo, è evidente che “l’imputato abbia inteso condividere la critica alla persona offesa, ma non ha condiviso le forme attraverso cui altri l’avevano promossa”.Era infatti nel diritto dell’imputato manifestare un’opinione apertamente ostile nei confronti della persona offesa e, contrariamente agli altri partecipanti alla discussione, lo ha esercitato correttamente, senza ricorrere alle espressioni offensive utilizzate dagli altri, né dimostrando di volerle amplificare attraverso il proprio comportamento.Infine, la Corte di Cassazione ha avuto modo di chiarire che “la condotta contestata potrebbe assumere in astratto rilevanza penale soltanto qualora potesse affermarsi che con il proprio messaggio l’imputato aveva consapevolmente rafforzato la volontà dei suoi interlocutori di diffamare la persona offesa”. Ad ogni modo Amilcare precisa che la stessa sentenza impugnata esclude chiaramente questa eventualità.Ringraziamo il dott. Amilcare Mancusi per le sue preziose informazioni e speriamo di aver soddisfatto tutte le curiosità dei lettori del blog di Pronto Pro su questo argomento.Pubblicato da ProntoPro.it