Oggi abbiamo parlato con Martin Devrient di stile fotografico e dell'impatto degli smartphone nel mondo della fotografia, sentiamo come la pensa.
Ciao Martin parlaci un po' di te e della tua storia.
Sono nato e cresciuto in una piccola città della Germania dell'Est, a pochi chilometri dalla frontiera con la Germania occidentale. Sin da piccolo ho avuto una grande passione perla fotografia, alla quale mi sono avvicinato da autodidatta. All'epoca le pellicole a colori, nonostante i prezzi relativamente elevati, erano decisamente di bassa qualità, mentre il bianco e nero era economico, aveva grandi potenzialità e, soprattutto, si poteva facilmente gestire in autonomia. Ho iniziato in un garage con il diapriettore come ingranditore, poi ho acquistato la mia prima attrezzatura per il processo di sviluppo completo. E ho iniziato a sperimentare, sviluppando e stampando da me le foto che scattavo soprattutto durante i viaggi, l'altra mia grande passione. All'inizio, erano tutti in Europa Est, gli unici Paesi dove i cittadini della DDR potevano viaggiare senza particolari difficoltà burocratiche. Poi, dopo il crollo del muro di Berlino, il fascino che provavo per le altre culture mi ha portato a girare mezzo mendo, questa volta accompagnato dalle nuove pellicole a diapositiva. Al ritorno da ogni viaggio, seguivano una serie di proiezioni, durante le quali molti mi ripetevano che avrei dovuto fare il fotografo. Ma io continuavo a studiare Architettura, lasciando che la fotografia restasse una passione. Nel 1996 arrivo come studente Erasmus a Napoli, che mi colpì così profondamente che decisi di trasferirmici dopo la tesi di laurea. Nel 2004 si presentò l'occasione per la mia prima personale al Goetheinstitut di Napoli, la mostra “InNatura”, che mi ha lanciato verso la fotografia sia come artista che come professionista. Sono seguite diverse mostre personali e collettive, tra le quali mi piace ricordare la partecipazione alla mostra “O vero!” al Museo Madre di Napoli, e progetti e workshop di fotografia con i Goetheinstitut di Lomè (Togo) e Dakar (Senegal). Infine, con la fotografia digitale, nonostante una mia iniziale resistenza, ho scoperto una nuova passione: la rinascita della fotografia 3D.
Oggi il potenziamento delle fotocamere integrate negli smartphone e la loro facilità di utilizzo portano sempre più persone a dilettarsi nella fotografia. Cosa ne pensi?
Il fatto che ognuno porti con sé una macchina fotografica, scatti e condivida, lo vedo più come un arricchimento. E se tra coloro che scattano nasce (diciamo così... “per caso”) un altro fotografo, benvenuto! Fare un bello scatto diventa sempre più facile, ma creare un progetto fotografico resta sempre una cosa complessa: un progetto non nasce in una fotocamera, qualunque essa sia, ma nella testa del fotografo. E da lì che parte la scelta dello spazio, della luce, del taglio, del motivo. Vedo più problematica la questione di trovare fotografie significative nella quantità infinita di immagini da cui siamo continuamente bombardati.
Quale credi che sia l'aspetto più importante perché una fotografia risulti d'impatto?
Ho difficoltà a generalizzare questo argomento. Alle volte mi colpisce il messaggio di un'immagine, anche se non è scattata in maniera tecnicamente corretta o se non è perfettamente composta. Altre volte, invece, mi affascina una foto che magari non contiene un “messaggio” forte, ma una bellezza straordinaria. La cosa fondamentale è che ci commuova, ci faccia pensare, sognare, aprire gli occhi – e, per il modo in cui ci riesca, non vorrei avere regole.
Cosa caratterizza i tuoi scatti e quale è stato il processo attraverso il quale sei arrivato a sviluppare il tuo stile?
Ho iniziato con fotografie di viaggio e documentazioni di opere d'arte, spazi museali, chiese etc. Con le mie foto, mi piace trascinare lo spettatore in sensazioni ambigue, talvolta scomode o assurde. Sviluppare uno stile è un processo lungo, costellato di critiche e autocritiche dolorose, ma i progetti importanti, che ti portano avanti nella ricerca e nella sperimentazione artistica e tecnica, alle volte possono arrivare anche casualmente, come è accaduto con la mia prima mostra “inNatura”. Tutto è cominciato con un mio capriccio personale: riprendere, nella valle del Liri, una natura bellissima, ma deturpata dai rifiuti. Ci sono tornato diverse volte e, lentamente, mi sentivo trascinare in un mondo surreale, staccato dalla “realtà”, tanto che ogni volta avevo bisogno di tempo per riprendermi emotivamente, quando uscivo dalla valle per rientrare nella civiltà. E proprio questa ambiguità tra ambientalismo classico - e quindi disgusto per la natura sfregiata dalla follia umana - e quella strana fascinazione per una sorta di mondo dei fantasmi, per i giochi di luce, per la bellezza della natura intorno che, anche se ferita, alla fine vince sempre - e si riappropria del suo spazio inglobando, direi quasi divorando, i rifiuti e gli scarti della nostra “civiltà” - proprio questa ambiguità, dicevo, ha fatto nascere in me così tante domande aperte, così tanti interrogativi pressanti, che è stato naturale voler condividere questa esperienza. E così con i miei scatti cercavo di ricreare proprio quell'ambiguità: foto affascinanti, poetiche, di qualcosa di oggettivamente brutto e dannoso - per noi e per il nostro futuro. Non sono partito con un' idea precisa dello stile che avrei voluto, invece quell'idea si è sviluppata quasi da sola.Ringraziamo Martin per aver condiviso con noi la sua storia e le sue opinioni e vi invitiamo a visitare il suo sito devrient.